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Criptovalute e (in)sostenibilità ambientale: i costi energetici del mining

Valentina Chabert • dic 06, 2022

Dall’annuncio della creazione, nel 2008, di una moneta elettronica iscritta in un sistema monetario indipendente dalla mediazione di una terza parte fiduciaria, le criptovalute si sono affermate come nuovo mezzo di scambio digitale tra pari alternativo all’attuale architettura dei pagamenti a livello nazionale ed internazionale. Ciononostante, l’elevato consumo di energia necessario al mining – la pratica di generazione delle criptomonete - ha sollevato interrogativi in merito alla sostenibilità ambientale del nuovo denaro.


Criptovalute: un nuovo paradigma monetario


Negli ultimi decenni, le criptovalute hanno consolidato in maniera risoluta il proprio ruolo di nuovo mezzo di scambio digitale originatisi sulla rete internet e basato sui principi della crittografia, necessari ad assicurare la protezione e l’effettivo funzionamento delle transazioni. Inscritte in un sistema di utenti che operano tra pari, ogni operazione viene riportata in un registro pubblico decentralizzato noto come blockchain, la cui tecnologia si avvale di una remunerazione al nodo della rete capace di risolvere un calcolo matematico e convalidare, successivamente, un blocco di transazioni.


La genesi del primo esperimento dell’utilizzo di una criptovaluta si colloca nel 2008, contestualmente alla Grande Recessione (seconda solo alla crisi del ’29) responsabile del crollo della Lehman Brothers, del conseguente fallimento di numerose banche internazionali e, nel caso dell’eurozona, di una profonda crisi del debito sovrano che ha costretto le Banche Centrali a ingenti prestiti per evitare il default e ad iniezioni di liquidità per rifinanziare le banche prossime al tracollo.


Nell’agosto del 2008 venne infatti registrato il dominio bitcoin.org, e, pochi mesi dopo, la creazione del Bitcoin - una versione peer-to-peer (tra pari) del contante elettronico che non necessita dell’intermediazione di un’istituzione finanziaria - fu annunciata da un’entità anonima operante con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto all’interno di una mailing list del sito di crittografia metzdowd.com. Nell’immediato, il sistema di transazioni elettroniche trustless e indipendente da una terza parte fiduciaria ha generato l’interesse di vasti network di programmatori a testare il nuovo paradigma, tanto che il 3 gennaio 2009 venne creato il primo blocco – il cosiddetto “Blocco 0” – contenente una ricompensa pari a 50 bitcoin ed il messaggio “Il Cancelliere ipotizza un secondo salvataggio per le banche”, chiaro riferimento al titolo del Times di quello stesso sabato mattina e all’instabilità causata dalla crisi finanziaria globale. Da allora, l’intrinseca decentralizzazione delle criptovalute ha messo in discussione la tradizionale convinzione che la pianificazione centralizzata attraverso politiche monetarie statali sia condizione necessaria al funzionamento degli scambi di denaro.

 

Mining e sostenibilità ambientale


La creazione di nuove quantità di criptovaluta passa attraverso la pratica del mining, l’operazione tramite cui un gruppo di “minatori” compete per risolvere un problema matematico basato su un algoritmo crittografico, al fine di raggiungere una “proof of work” in grado di generare un nuovo blocco all’interno della blockchain. Benché indispensabile a garantire la continuità dell’estrazione del nuovo denaro, il mining necessita tuttavia di un quantitativo energetico straordinariamente elevato, tanto da sollevare numerosi interrogativi all’interno della comunità scientifica in merito alla sostenibilità ambientale delle criptomonete e al loro potenziale impatto sul raggiungimento degli obiettivi di mitigazione del cambiamento climatico.


Un recente studio dell’Università di Cambridge ha chiarito come la quantità di energia necessaria alla generazione di criptovalute sia comparabile al consumo energetico di numerosi Stati, precisando inoltre che per il solo anno 2020 il mining di Bitcoin ha richiesto un quantitativo energetico pari a 121,36 terawattora, superando il consumo totale annuo di Argentina, Emirati Arabi Uniti e Paesi Bassi.


Secondo i dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, l’impiego di dispositivi elettronici ad alta intensità energetica ha influito notevolmente sulla mole complessiva di anidride carbonica emessa nel corso dell’anno, affermando come la generazione di Bitcoin sia suscettibile di minare l’implementazione degli accordi di Parigi e provocare un innalzamento delle temperature fino a 2°C. Allo stesso modo, fattori come la rapida obsolescenza degli hardware necessari alle pratiche di mining, il conseguente aumento di rifiuti elettronici - equiparabili all’ e-waste generato in un anno dal Lussemburgo - e l’ulteriore energia necessaria al raffreddamento dei dispositivi elettronici contribuiscono all’aumento dei costi ambientali connessi alle transazioni monetarie in criptovalute. In tale contesto, nel mese di aprile alcune importanti organizzazioni - tra cui l’Energy Web Foundation e il Rocky Mountain Institute - hanno siglato il Crypto Climate Accord, intesa volta a decarbonizzare l’industria globale delle criptovalute e raggiungere il tetto delle emissioni zero entro il 2030.

 

Il costo energetico del mining: indicatori e variabili


Allo stato attuale, il Cambridge Bitcoin Electronic Consumption Index (CBECI), sviluppato dall’Università di Cambridge lo scorso maggio, e il Bitcoin Energy Consumption Index (BECI) risultano essere i principali indicatori ai quali si fa affidamento per il calcolo del consumo energetico del mining di Bitcoin. Secondo tali indicatori, la quantità di energia impiegata e, di conseguenza, l’impatto ambientale, variano notevolmente a seconda di una molteplicità di fattori, incluso il prezzo dell’energia, la fonte di produzione (combustibili fossili o rinnovabili), la temperatura media del paese di mining e, infine, eventuali restrizioni legali alla generazione di criptovalute.


In particolare, sulla base delle statistiche elaborate dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dall’Agenzia Internazionale per l’Energia a proposito della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, otto paesi europei (tra cui Danimarca, Germania e Svizzera) e due asiatici (Corea del Sud e Giappone) occupano le posizioni più alte della classifica degli Stati in cui appare più conveniente in termini di sostenibilità praticare il mining.


In aggiunta alla collocazione geografica nell’emisfero Nord del globo, tali Paesi sembrano presentare caratteristiche simili rispetto al costo dell’energia, al PIL pro capite e alla mole di investimenti in ricerca, sviluppo e capitale umano. Tuttavia, confrontando i dati relativi all’ effettiva localizzazione territoriale dei “minatori”, appare chiaro come nella realtà la generazione di criptovalute sia del tutto sconnessa da considerazioni di tipo ambientale: il 72% delle pratiche di mining risulta infatti avvenire in Cina, la cui produzione energetica dipende per la maggior parte da carbone e combustibili fossili; seguono inoltre Bolivia, Venezuela, Libia, Pakistan, Iran e Iraq, paesi particolarmente attraenti in virtù dei costi esigui dell’energia - sebbene meno auspicabili in una prospettiva sostenibile.



Il quantitativo energetico necessario al mining è infine suscettibile di provocare tensioni geopolitiche a seguito di improvvise variazioni del prezzo dell’energia. A tal proposito, le recenti proteste in Kazakistan - paese leader nell’estrazione di Bitcoin- forniscono un chiaro esempio delle possibili implicazioni locali e regionali di improvvise crisi energetiche, il cui impatto si ripercuote necessariamente anche sulle attività finanziarie e di cryptomining della Nazione.

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